2 Cusano e la matematica

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10.34663/9783945561515-02

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De Felice, Federica (2020). Cusano e la matematica. In: Niccolò Cusano. Scritti matematici: Introduzione, traduzione e note. Berlin: Max-Planck-Gesellschaft zur Förderung der Wissenschaften.

Prima di indagare gli scritti matematici, è opportuno tener conto di alcune coordinate di fondo della filosofia della matematica elaborata da Cusano nei suoi scritti.

Nel primo capitolo del De docta ignorantia, Cusano, analizzando il modo in cui procede la conoscenza razionale1, afferma che ogni ricerca consiste nell’istituire un confronto tra due cose, di cui una è nota e l’altra è ciò che si intende conoscere. Mediante tale comparatio si giunge a individuare un rapporto (proportio), che permette di conoscere ciò che è ignoto2. Avendo carattere comparativo, la nostra conoscenza si basa fondamentale sulla misurazione, la quale non può realizzarsi senza il numero, che, afferma Cusano, costituisce la condizione necessaria di ogni comparazione3 e, in quanto tale, è il principio formale di ogni atto conoscitivo della ragione4. Da ciò Cusano trae due conseguenze fondamentali. La prima è che l’infinito è per l’uomo inconoscibile, in quanto si sottrae a ogni proportio e a ogni comparatio5: «finiti ad infinitum nulla est proportio».6 La seconda è che la «precisa veritas est incomprehensibilis»7, ossia che è impossibile conoscere perfettamente (adaequate) le cose, il che conferisce alla nostra conoscenza un carattere strutturalmente congetturale8.

Misurando, inoltre, l’uomo diventa consapevole dei limiti della propria conoscenza e, facendo esperienza dell’impossibilità di raggiungere la conoscenza dell’ab–solutum, acquisisce la saggezza della consapevolezza della propria ignoranza, la docta ignorantia9. E, poiché il processo attraverso il quale comprendiamo è lo stesso che blocca l’accesso all’infinito e ci separa abissalmente da esso, alla mente non resta che vedere l’infinito prospettivamente, nella miriade di modi in cui si manifesta nel mondo finito, ossia nella molteplicità dei particolari che, «secundum plus et minus»10, partecipano di essa11. L’infinito è per l’uomo un enigma insondabile, il cui mistero è penetrabile riconoscendo il significato dei segni soprannaturali di cui il mondo è intessuto, o, come scrive Cusano nel De filiatione dei, contemplando nelle cose sensibili («che sono segni del vero espressi attraverso simboli») le realtà intellettuali e da queste ascendendo, «con una qualche comparazione senza proporzione», alle realtà eterne12.

La sproporzione che sussiste tra finito e infinito è la stessa di quella esistente tra numero e unità o tra ciò che è curvo e ciò che è retto. Nell’infinito, nell’unità e nella rettitudine si realizza la perfetta uguaglianza, la praecisio absoluta («deus est ipsa absoluta praecisio»13) la quale tuttavia resta alla mente umana «inaccessibilis»14, «inattingibilis»15 o «in nullo cognoscibili cognoscitur»16 o «impossibilis [est]in omni finito»17.

Cusano vede nella ratio o unitas aequalitatis la misura dell’essere e del conoscere: ogni misurazione, infatti, presuppone necessariamente un’unità di misura, «sine qua numerus non esset numerus»18. Questa unità assoluta, costituendo il principio della numerazione, sfugge, tuttavia, ad ogni misurazione19: essa «in pluralitate contracta est»20 o, detto altrimenti, «numerus est explicatio unitatis»21. Questo vuol dure che l’unità non è mai visibile uti est, ma solo in alteritate22. Ma, come ogni realtà, in quanto è, partecipa23dell’uguaglianza secondo un diverso grado di proporzione, così ogni immagine, partecipando della verità nell’alterità del suo essere, è sempre lontana dalla verità del suo esemplare24, che, in sé, è «imparticipabilis»25.

Tuttavia, tra tutte, le figure matematiche rappresentano per Cusano lo speculum più trasparente in cui la verità (ri)splende non come in una lontana immagine (remota similitudo), ma come nella più luminosa delle approssimazioni (fulgida propinquitas)26. La matematica, per Cusano, viene a configurarsi come la via regia del processo di assimilazione mediante cui il soggetto (la mente) cerca di eguagliare l’oggetto ineguagliabile (dio). Questo perché «mens nostra mathematicalia fabricat»27: essendo prodotti dalla mente, gli enti matematici non sono soggetti al mutamento che contrassegna i sensibilia e sono perciò dotate di maggiore certezza, anzi di una «fermissimam atque nobis certitudinem»28.

Tuttavia, proprio in quanto prodotti della ragione, gli enti matematici sono finiti e non possono essere raffigurati dall’immaginazione diversamente da come sono: «cum omnia mathematicalia sint finita et aliter etiam imaginari nequeant»29. Nella scia di Boezio (ca. 480–ca. 524)30, infatti, Cusano afferma che qualsiasi figura si esplica necessariamente nella grandezza (magnitudo) ed è tale perché è una certa quantità31, che differisce necessariamente da un’altra. In pratica il geometra vede la figura come entità separata dalla materia corporea e sensibile, ma non dalla materia intelligibile32: «sed materia eius magnitudo est, sine qua nihil concipit mathematicus»33. E tuttavia, mentre disegna un particolare triangolo o un particolare cerchio, il geometra guarda con la mente all’exemplar, ossia al modello infinito34. Il triangolo disegnato è in realtà infinito nella mente e non è soggetto alle dimensioni: non è pensato come grande o piccolo, ma come l’atto di tutti i triangoli possibili35. Nell’ambito geometrico–matematico l’infinito viene, per così dire, esperito «d[a]ll’intelletto insieme con l’immaginazione»36.

Ora, se la geometria è vista da Cusano come il terreno previlegiato in cui si può, certo modo, vedere l’infinito, questo deriva dal fatto che vi è un luogo geometrico in cui si realizza la perfetta uguaglianza del principio, ossia nella linea retta. La linea retta gode, infatti, di una proprietà “limite”: in essa sparisce ogni curvità, cessano di esistere il più e il meno di ciò che può essere più o meno curvo; i concetti di aumento e diminuzione si elidono perché coincidono nell’uguaglianza assoluta.

fig. 1

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È per questa proprietà che Cusano può affermare che ciò che è retto è misura di tutto ciò che è curvo37. Nel più e meno è implicito infatti un criterio di misura che postula l’esistenza di un ente uguale solo a se stesso rispetto al quale definire il più e il meno. Ciò che è curvo è più o meno curvo in base alla sua aderenza (partecipazione) alla retta, che, per definizione, è priva di curvità. E se è vero che non si può immaginare che il curvo arrivi a coincidere col retto anche dopo una successione infinita di curve sempre più aderenti ad esso, la retta resta tuttavia l’ultimo termine di riferimento, l’unità di misura per l’infinità delle linee curve.

Così, nel concetto di rectitudo («la linea infinita è rettitudine infinita»38), o meglio nella paradossale soluzione del curvo nel retto, ossia nella perfetta uguaglianza della loro coincidenza, Cusano illustra geometricamente l’infinito in atto, fermo restando «l’impossibilità che esista una linea infinita in atto»39.

Nell’Apologia doctae ignorantiae, nel rispondere a Wenck che non riusciva a comprendere come l’infinito potesse essere misura dei finiti, dal momento che il finito non ha con l’infinito nessuna proportio40, Cusano riprende l’esempio della linea infinita utilizzato nella sua prima opera, per mostrare come sia possibile pervenire «ad simpliciter infinitum»41. Ogni linea (finita) è, in sé, infinita, perché, pur essendo potenzialmente divisibile all’infinito, resta sempre una linea. Questo implica che «una linea finita è indivisibile nel suo esser linea […] Ne consegue che la linea infinita è la ragion d’essere della linea finita»42. Allo stesso modo, ogni linea, qualunque sia la sua misura, estesa all’infinito non è più una linea, ma si identifica con l’infinità stessa43. Nella linea infinita, dunque, vi è ogni linea finita, sebbene ciascuna linea finita ne partecipi in gradi diversi. In questo senso, la linea retta infinita costituisce l’esemplare di tutte le figure geometriche che si possono costruire con le linee44.

Ora, se è vero che l’infinito semplice comprende il massimo e il minimo assoluto, va detto che, poiché solo il massimo assoluto, che contiene tutto, include il minimo; solo il massimo assoluto è uguale a se stesso, e dunque in esso solo è fondata l’uguaglianza assoluta45. Così, nel massimo assoluto il cerchio è in ogni poligono, e ogni poligono è nel cerchio: l’uno è nell’altro, e c’è un solo perimetro infinito: la massima linea curva è uguale alla linea retta, così come lo è la minima linea curva46. Questo vuol dire che la curva, in sè, non è nulla, ma partecipa della rettitudine secondo un certo grado47, e dunque, comparando la curva e la retta, si conclude che la linea retta partecipa della linea infinita più di quanto ne partecipi la linea curva: «premetto che la linea retta è più semplice della linea curva, in quanto la linea curva, deviando dalla linea retta, non può essere concepita senza il concavo e il convesso»48.

La linea infinita, a sua volta, cessa di essere linea perché essa non ha più né quantità né termine; la linea infinita non è più linea, ossia non è più un ens rationis, ma la stessa infinità, ossia uguaglianza assoluta49. Questo vuol dire che il maximum in se non è né linea, né triangolo, né cerchio, né sfera, «ma è piuttosto infinitamente e senza alcuna proporzione al di sopra di esse»50.

Dunque, attraverso un processo di infinitizzazione delle figure geometriche (linea, triangolo, cerchio, sfera), è possibile avvicinarsi all’«infinito semplice che è del tutto indipendente da ogni figura»51. Questo processo avviene, scrive Cusano, per additionem infinitatis52. Tuttavia, più che come l’attuazione dell’illimitato sviluppo di un’infinità potenziale, l’infinità si configura come rimozione del finito, ossia del limite, dal finito: «quando infinitas additur termino […] non aliud agit eius additio ad terminum quam removere terminum»53. Si potrebbe dire che l’additio infinitatis altro non è che un’ablatio finitatis. Così facendo, si intuisce, in una superiore visione mentale, lo stesso infinito sine termine54, «et tuns nostra ignorantia incomprehensibilter docebitur»55.

Cusano sa che le figure infinite non esistono in actu. Esse sono semplicemente un «enigma intellettuale» – il più adeguato (propinquius) – per indicare Dio56. La transumptio attuata dalla matematica intellettuale, configurandosi come assimilatio del finito alla natura infinita divina57, costituisce un’utile manuductio all’indagine umana intorno alle cose divine (in rebus divinis58) e rappresenta il terreno fertile per un’antropologia metafisica che cerca di conciliare il potere dell’uomo con l’infinita potenza di Dio mediante il principio della coincidentia oppositorum59. In questo senso David Albertson afferma: «Geometry was for him (i.e. Cusanus) a kind of mathematical laboratory for speculative discoveries, or better, a kind of playground where he could observe his mind’s movements and exercise it for theological tasks»60.

Note a piè pagina

«Numerus ergo omnia proportionabilia includit» (Cusanus 1972a, I–3). Cfr. anche Cusanus 1983a, VI, 95, 4–7; Cusanus 1988a, II, 80, 1–2.

La capacità di numerare si configura, pertanto, come la differenza specifica dell’uomo rispetto agli altri animali non dotati di ragione. Cfr. Cusanus 1972a, II, 3, 108, 2–4. Sull’importanza del numero nell’attività conoscitiva, cfr. Van Velthoven 1977, 133–154ss; Stadler 1983b, 118–131; Stadler 1983a; Eisenkopf 2007; Bocken 2005, 201–220; Böhlandt 2009.

Questo principio dell’incommensurabilità dell’infinito è presente anche in altri passi del De docta ignorantia (Cusanus 1972a, II, 2, 102, 10–11) e ricorre in molti suoi scritti: cfr. Cusanus 2002, 27, 6–8; Cusanus 2000, XXIII, 101, 7–8; Cusanus 1994, 13, 14–16; Cusanus 2010b, 3, 5–7; Cusanus 1973, 10, 7–9. Sul significato di tale principio, cfr. Hirschberger 1975, 39–45; Beierwaltes 1980. Sull’origine di tale principio nella tradizione antica e sulla presenza nella filosofia medioevale, nonché sulla discussione intorno a tale principio, cfr. Peroli 2017, nota 12, 2174–2176.

«la verità[…] può essere comunicata mediante una sua similitudine, la quale può essere recepita in modo maggiore o minore, conformemente alla disposizione di chi la riceve» (Cusanus 1988b, 18). Cfr. anche Cusanus 1972a, II, X, 155.

«L’unità non può essere un numero perché il numero ammette sempre un più, per cui non può in alcun modo essere né il minimo in quanto tale, né il massimo in quanto tale. L’unità piuttosto è il principio di ogni numero, perché è il minimo; ed è il fine di ogni numero perché è il massimo» (Cusanus 1972a, I, 5, 14). Cfr. anche Cusanus 1964, Epilogus, 46; 14, 24–25; Cusanus 1972b, I, 5, 17; Cusanus 1988a, II–65; Cusanus 1982, 14, 24–25.

Sotto questo aspetto ogni individuo, nel suo essere contratto, non solo perfeziona il suo pensiero e il suo sapere (cfr. Stallmach 1989), ma acquista anche – e soprattutto – la dignità di un centro infinito di relazioni infinite (Pasqua 2015, 469–478). Se la complicatio viene a indicare l’identità in Dio di tutte le cose, l’explicatio, che dà luogo a una contractio (cfr. Cusanus 1972a, II, 4, 116), rappresenta il momento della distinzione, della non coincidenza tra creatore e creatura. La nozione di contrazione viene ad assumere un ruolo chiave nella spiegazione del rapporto tra Dio e il mondo: «unde quando recte consideratur de contractione, omnia sunt clara» (ivi, 114). Nel V capitolo del II libro del De docta ignorantia, Cusano descrive la relazione di ogni cosa con il tutto come contrazione: «...quodlibet recipit omnia, ut in ipso sint ipsum contracte. Cum quodlibet non possit esse actu omnia, cum sit contractum, contrahit omnia, ut sint ipsum» (ivi, 117). A sottolineare l’importanza che la categoria della relazione assume nel concetto cusaniano di contractio è Thomas Leinkauf, il quale, riconoscendo alla relazione la caratteristica peculiare della mente: «Das Kontrakt-Sein einer Sache ist ihr universaler Aspekt: nur wenn man am Einzelnen diesen Bezug auf das Ganze denkt, denkt man es als Einzelnes unverkürzt», valuta la molteplicità positivamente («als […] lebendige (dynamische) Einheit») e la differenza, o non–coincidenza, come espressione dell’attività stessa dell’assoluto: «Ausdruck des Identitäts-setzenden Tätigseins Gottes» (Leinkauf 2006, 172–179). Cfr. Hopkins 1983, 97–112.

Cfr. Cusanus 2001, 27, 20–27. Cusano afferma che ogni singola realtà, così come ogni forma di sapere partecipa dell’aequalitas: tuttavia, mentre la percezione sensibile coglie l’uguaglianza nella qualità, la facoltà immaginativa la coglie nella quantità, mentre l’intelletto è in grado di coglierla in se stessa, in quanto l’intelletto è ciò che più somiglia all’uguaglianza, essendo «aequalitatis species seu signum» (Cusanus 1964, X, 32). Cfr. anche Cusanus 1964, X, 33–34.

«nulla enim imago esse potest veritatis adaequata mensura, cum in eo, quod imago, deficit» (Cusanus 2002, 15, 20–21).

«in speculo mathematico verum illud, quod per omnes scibile quaeritur, reluceat non modo remota similitudine sed fulgida quadam propinquitate» (Cusanus 1994, I, 8–10). Cfr. anche Cusanus 1959b, 3, 65–68. Cfr. Cusanus 1972a, I, 11, 30, 4; XI, 20, 4; Cusanus 2001, 13, 23–25.

Cusanus 1988b, 32, 55. Cfr. anche Cusanus 1972b, I, 1. Sulla ricorrente concezione cusaniana di «mens humana» come «imago»», «similitudo» o «complicatio notionalis», cfr. Cusanus 1983a, II, 58, 9–11; III, 73, 1; V, 74, 22; Cusanus 1988a, 91–92; Cusanus 1982, XVII, 49, 10; XXIX, 86, 3–19. I contenuti del sapere matematico, in quanto entia rationis, sono certi e precisi, per cui le leggi che esprimono le relazioni tra le cose sono le stesse della ragione. Va da sé che la certezza della matematica si riferisce solo a quella che Cusano definisce la matematica razionale, e non è applicabile a quella sensibile e intellettuale.

«Homo[…]non videt figuram nisi quantam. Quantitas autem materiam supponit» (Cusanus 2001, 5, 15).

Scrive Cusano nel De possest: «[La matematica]non considera, infatti, il cerchio come esso è in un pavimento corruttibile, ma come esso è nel principio razionale (in sua ratione), ovvero nella sua definizione». (Cusanus 1973, 63, 12–15).

Wolfang Achtner mostra che per Cusano, come già per Gregorio di Nissa (ca. 335–ca. 394) e molto più tardi per Georg Cantor (1845–1918), un essere divino deve avere una natura veramente infinita, e non essere un potenziale infinito processo di crescita senza fine (Achtner 2011). L’autore mostra, inoltre, come per Cusano, profondamente influenzato dalla tradizione apofatica, l’infinito possa essere raggiunto dalla rappresentazione simbolica e dal ragionamento matematico asintotico, dando così un notevole contributo nel rendere l’infinito accessibile razionalmente (cfr. Achtner 2005, 392–411). Sul rapporto tra la concezione cusaniana di infinito matematico e la matematica scolastica, cfr. Werland 1986, 103–109.

«il retto, come dice Aristotele, è la misura di se stesso e dell’obliquo» (Cusanus 1972a, I, 18, 53).

Cusanus 2002, 47, 9. Sul rapporto Wenck–Cusano, cfr. Haubst 1955.

«Infinita linea non est linea, sed linea in infinitate est infinitas […]infinita quantitas non est quantitas, sed infinitas» (Cusanus 2000, XIII, 55, 8–12).

Cfr. Cusanus 1983b, II, 44. «Ma, per illustrare come Dio, considerato assolutamente in se stesso, sia l’atto di ogni potere, vale a dire la forma ad un tempo semplicissima e totalmente infinita, non vedo un’immagine intellettuale più appropriata di quella che si ha se si suppone una linea infinita. Nel mio trattato Sulla dotta ignoranza ho sostenuto che, se vi fosse una linea infinita, essa sarebbe l’atto di ogni poter essere di una linea, sarebbe cioè il limite di tutte le figure che possono essere delimitate attraverso una linea e il modello più adeguato di tutte le figure che possono essere tracciate mediante delle linee» (Cusanus 1973, 59, 1–7). Cfr. Cusanus 1972a, I, 13, 35.

«Solo il massimo, che è la ragion d’essere stessa infinita, può partecipare della ragion d’essere nella forma dell’uguaglianza somma» (Cusanus 1972a, I, 18, 47, 3–5), uguaglianza somma che si identifica nella uguaglianza dell’unità. Ancora, «come la linea infinita è la misura della linea retta e di quella curva, così il massimo è la misura di tutte le cose, le quali, in forme certamente diverse, partecipano tutte in qualche modo di lui» (Cusanus 1972a, I, 18, 52, 22–24).

«Qualcosa che sia curvo in modo massimo e in modo minimo non è che retto» (Cusanus 1972a, I, 18, 52). In Cusanus 1994, 13, 9–27 Cusano conclude che, poiché la linea circolare infinita è dritta, la linea retta infinita è la misura vera che misura la linea circolare infinita. Se la coincidenza degli opposti è come la circonferenza di un cerchio infinito, la differenza tra gli opposti è come la circonferenza di un poligono finito. Considerando, per esempio, la corda e l’arco di una circonferenza, egli nota che essi coincidono nell’infinitamente piccolo: «coincideret igitur ibi corda et arcus si ad minimam quantitatem in talibus deveniretur» (Cusanus 2010d, 4). Sul concetto di minimum in relazione al principio della coincidenza degli opposti, cfr. Bredow 1970, 357–366.

«Nè il curvo, in quanto curvo, è qualcosa in sè, poichè è una declinazione (casus) dal retto» (Cusanus 1972a, I, 18, 52). Cfr. anche Cusanus 1972a, II, 2, 99.

Cusanus 1994, IV, 42–44. Ancora, nel De quaerendo dei, Cusano afferma «Est denique adhuc via intra te quaerendi deum, quae est ablationis terminatorum» (Cusanus 1959b, V, 49, 1).

«Et ita ex figuris multiangulis et circulo complicante omnes formabiles polygonias mens ascendit ad theologicas figuras et intuetur dimissis figuris virtutem infinitam primi principii» (Cusanus 1994, V, 23–26). Cfr. Nicolle 2005, 279–293; Vescovini 1972, 609–639.

Cusanus 1972a, I, 12, 33. Cfr. Celeyrette 2011, 151–165. Sull’importanza del processo del transferre in Cusano, cfr. Cuozzo 2002.

Cfr. anche Cusanus 2002, 46, 31; Cusanus 1983b, II, 43: «Per te ipsum hoc clarissime conspicis, quod infinita rectitudo se habet ad omnia sicut infinita linea, si foret, ad figuras».

Cfr. Cusanus 1972a, I, 13, 35; Cusanus 1972b, XII, 17, 175, 1–3, Cusanus 1982, XVII, 50, 1–5. Cfr. Moritz 2006, 260–264, in cui l’autrice mostra come la nozione cusaniana di transuptio abbia origine nella tradizione retorica antica.

Cfr. Cusanus 1972a, I, 11, 30, 4; 32, 26–28. Con la più chiara delle sintesi, Cusano scrive: «nos certos reddit sine haesitatione in theologicis id ipsum theologice, quod in mathematicis mathematice affermandum» (Cusanus 1994, II, 83–85). Sul processo di infinitizzazione delle figure geometriche e sul loro uso simbolico, cfr. Grell 1965, 33–41; Breidert 1977, 116–126; Oberrauch 1993b, 373–382; D’Amico 2005, 265–278; Counet 2005, 279–293; Yamaki 2005, 295–312; Brient 2006, 210–225; Nagel 2007; Rusconi 2012.